ALCUNI PASSI
“Dopo il maggio piovoso, giugno
si rivestì d’oro. Le messi erano alte e dritte, nessuna brezza
le incurvava. Piegavano il capo solo per il peso della spiga. Ringraziano
Dio, pensai, perché ha gonfiato i loro chicchi.
Spostai lo sguardo sulla fioritura dei soffioni che rendeva stellati i
campi. Avevo mandato Stefano a raccoglierne una cesta. “Ti ho portato
i tuoi denti, Leone!” mi avrebbe gridato ridendo. Ormai aveva dodici
anni, il mio trovatello. Non credeva più che il semplice contatto
con il fiore potesse fare orinare nel letto durante il sonno. Lo raccontava
ai piccoli, però, per tenerli lontani dai cespi. Quando poi sarebbero
spuntati i globi di semi, allora tutti avrebbero potuto soffiarci sopra.
Io, in verità, che mi chiamavo Leone ed ero uno dei monaci di Cloyes,
non sapevo che farmene della cicoria selvatica, ma mi faceva piacere che
Stefano la portasse a me. Ne facevo dono a Onorio che avrebbe preparato
marmellate con i fiori, insalate con le foglie e polveri medicinali o
infusi con le radici.
Che un monaco desiderasse la compagnia di un fanciullo non era certo benvisto
dal priore Pietro. Io pregavo il Signore che mi perdonasse la follia di
sentirmi quasi padre e facevo penitenze a dismisura. Sapevo di imbrogliare.
Pregavo e mi imponevo rinunce per farmi perdonare anche i peccati che
non avevo ancora commesso. Pensare a Stefano era già un peccato,
e quindi ogni notte mi obbligavo a un’ora supplementare di orazioni.
Che c’era di male? Lo sapevo: ai monaci non erano concessi affetti
terreni. Cuore, mente e corpo appartenevano a Dio. Mi sforzavo di stare
il meno possibile in sua compagnia, ma era una tale gioia quando correva
da me e mi raccontava le avventure del giorno!
“Che cosa c’è, Stefano?”
gli domandai.
Stefano sembrò esplodere. Mi si avventò contro e mi circondò
con le braccia stringendomi forte.
Onorio e Tommaso si scambiarono uno sguardo perplesso, e poi diressero
altrove gli occhi per non sottolineare l’imbarazzo che mi causava
l’intenso contatto fisico. Stefano non era solito comportarsi così.
Lo staccai da me e mormorai:
“Mettiti seduto e raccontaci tutto.”
Ma Stefano non poteva sedersi, era troppo agitato. Fece girare lo sguardo
su tutti e tre e disse, con voce tremante:
“Ho visto Gesù.”
La prima cosa che feci fu di controllare che Pietro non ci stesse spiando
da lontano. Quindi tirai da parte Tommaso e gli sussurrai:
“Porta qui Severino, ma senza farti vedere da Pietro. Se invece
lo incontrate e vi domanda dove andate, rispondi che vuoi che Severino
veda un pesce che non conosci.”
Con la coda dell’occhio scorsi Onorio storcere la bocca.
“Non lo stiamo ingannando” lo rassicurai, “ma lo teniamo
lontano da un’agitazione eccessiva. Ricordi che cosa ha detto Severino?
Di non lasciare che il sangue gli si scaldi, altrimenti rischia di nuovo
di morire.”
“Ricordo, sì” borbottò Onorio.
“Andiamo tra le betulle, così Stefano non avrà più
la testa al sole.”
Stefano si morse il labbro per l’impazienza, ma non fece obiezione
e ci seguì. Si sedette sull’erba di fronte a me e a Onorio.
“Ora puoi raccontarci tutto” dissi.
E Stefano raccontò.
Lo fece con tale passione che alla fine eravamo frastornati, ma anche
eccitati. Che cosa c’era di vero nelle sue parole? Anzi: che cosa
c’era di falso?
Tutti e due avevamo risentito della potenza della narrazione e volevamo
credere con tutta l’anima che dalle nubi fosse davvero sceso Cristo
in persona.
Ma… un miracolo a Cloyes, con Chartres tanto vicina?
Eh, il vescovo Rinaldo… Quant’era stato furbo a inventare
il miracolo del Velo della Vergine! Era un telo lungo cinque metri regalato
a Carlomagno dall’imperatore di Costantinopoli.
Giacomo non l’aveva bevuta, quella storia dei tre monaci rifugiatisi
nella cripta durante l’incendio e riapparsi tre giorni dopo con
il Velo integro. Non avevano nemmeno una scottatura! E la reliquia? La
Sancta Camisia, com’era chiamato il velo, era sicuramentre bruciata,
ma il vescovo ne aveva fatta filare in fretta e furia una copia dalle
monache. E la gente sospirò con gli occhi bassi, quando si sentì
chiedere sempre più soldi, ma li cavò fuori per pagarsi
il paradiso.
Giacomo, quel giorno, era pensieroso perché sulla pietra avrebbe
scolpito proprio quell’episodio, che ormai era considerato il miracolo
del Velo. Ma le sue intenzioni non erano così pure come il vescovo
si sarebbe aspettato da un operaio di Dio. Avrebbe raffigurato cristiani
tra le fiamme dell’incendio, ma erano cristiani che stringevano
al petto soldi e ori; e il diavolo aveva la mitria, seppure mascherata
da corna e criniera ricciuta; e in cielo pose la Vergine Nera che i Druidi
avevano scolpito in legno di pero, come gliel’aveva descritta suo
padre.
Quello, gli aveva detto, era un luogo sacro dei Celti e i monaci ci avevano
edificato sopra una chiesa dopo l’altra per purificarlo, senza però
mai riuscirci del tutto.
Infatti, gli antichi culti vivevano ancora e Giacomo lo sapeva bene. Lui,
sua moglie e alcuni amici si riunivano per pregare a modo loro, in una
lingua che sopravviveva solo nella clandestinità.
Era pensieroso perché ancora una volta avrebbe sfidato il papa
e il re. Se avessero saputo che cosa veramente lui scolpiva, lo avrebbero
subito condannato a morte. Ma lui aveva spesso ricevuto gli elogi del
vescovo: bravo, Giacomo, anche se un po’ troppo originale. Contava
sulla buona fama di cui godeva. Chi mai avrebbe voluto fare del male a
Giacomo Brunisson, lo scultore che Chartres prestava a città lontane
dove si costruivano altre cattedrali su altri luoghi di culto pagani?
Lui ci andava e insegnava non solo il proprio mestiere, ma anche la sua
seconda fede che conviveva in pace con il credo cristiano.
Davanti a tutti si sistemò il vescovo.
Era abbigliato come un principe e come un imperatore era ricoperto d’oro.
Stringeva nelle mani una croce d’argento con incastonate decine
di gemme multicolori. Volarono riflessi in ogni direzione. La levò
alta con un certo sforzo: la croce era pesante e lui era flaccido e ansimante.
Il coro di monaci completò l’ultimo versetto.
In quale silenzio sprofondammo tutti!
La moltitudine si mantenne ordinata nonostante la calca. Mi sembrò
quasi di sentire il battito dei cuori. Più che il canto dei monaci,
i cuori delle persone esprimevano il più profondo desiderio di
cose buone e giuste.
Nessuno dei personaggi potenti che ci stavano intorno manifestò
la minima emozione. Tennero tutti lo sguardo fisso davanti a sé,
l’espressione fiera e sprezzante. Nel mio animo, invece, si susseguirono
emozioni tanto forti che il sudore mi prese a scorrere in rivoli gelidi
lungo la schiena.
“In nomine patris et filii et…” cominciò a recitare
il vescovo disegnando in aria il simbolo della fede con la mano destra,
dopo avere consegnato la croce a un diacono. Tutti si segnarono e chinarono
il capo.
“Non dobbiamo pensare che il diavolo ci si presenti nelle sue forme
più schifose e spaventose. Esso è il signore della furbizia,
ricordiamocelo. Con quali aspetti seducenti viene a noi! Abbiamo accolto
la richiesta del re di indagare su questo cammino di pueri che proclamano
l’invito divino di recarsi a Gerusalemme.
Vi ricordo che il papa stesso ha spronato i sovrani a riportare la Vera
Croce nella santa sede di Roma. Dio ne ha già parlato con il papa.
Gli ha già rivelato i propri piani per la liberazione del Santo
Sepolcro. Come potrebbe il Signore Dio Nostro palesarsi al papa con richieste
chiare e poi indirizzare a un fanciullo altre richieste? Pensate forse
che Dio voglia prendersi gioco del suo popolo e del suo vicario in terra?
Noi abbiamo esaminato la lettera che il fanciullo ha portato dal suo borgo
e abbiamo consultato le Sacre Scritture e le sante parole del nostro pontefice.
Non esiste alcuna possibilità che la lettera esprima la volontà
divina. Non può essere vero che Gesù sia apparso al fanciullo.
Non lo accusiamo, però, di essere un mentitore.
Invece, riteniamo che Satana in persona abbia ordito questo inganno per
indebolire la chiesa che esso odia e che vorrebbe distruggere.
E allora vi dico: non ascoltate il diavolo! non cedete alle sue tentazioni!
non cadete in errore! L’unica vera guida è la chiesa e la
chiesa comanda che questo cammino abbia termine qui, prima che precipiti
nelle fiamme dell’inferno.
Ognuno ritorni donde è venuto e preghi per la propria anima e per
il peccato commesso credendo alle parole di un fanciullo innocente e ingenuo
ingannato dall’empio Lucifero.”
Peggio di una sentenza di morte.
Nessuna parola su di me. Ma non era necessario. Ero un monaco che aveva
tradito i voti. Mi ero messo contro la chiesa, dalla parte del diavolo.
Quale penitenza avrei dovuto affrontare per tornare nella grazia di Dio?
Oppure per me non c’era più salvezza?
Non potevamo risalirle di corsa, l’erta avrebbe rallentato il passo
e in breve la fatica ci avrebbe fermati. Non potevamo tornare indietro,
perché un altro stuolo di diavoli apparve alle nostre spalle. Potemmo
solo correre dritti davanti a noi, sempre più lontano da Troyes,
sempre troppo vicini alla furia degli assassini.
Chi li comandava? Un uomo dritto sul proprio destriero. Se n’era
rimasto là sul poggio, da dove contemplava immobile il nostro terrore.
Quando lo scorsi, mi fermai un attimo, stordito dalla visione. Indossava
la veste di maglia, e di maglia di ferro erano ricoperti i piedi, le mani
e la testa. Parabracci, cubitiere e alette di cuoio, insieme alla cotta
imbottita, lo rendevano simile a un demone della guerra; o forse solo
a un insetto mostruoso.
Sopra l’elmo a pentolaccia risaltava la mitria vescovile bianca
bordata d’oro.
Non era una lancia, quella che impugnava. Era una croce tesa dritta contro
il cielo.
Mi salì alla bocca un conato di vomito. Quello era il vescovo,
il rappresentante del papa, a sua volta rappresentante di Dio in terra.
Quasi caddi al suolo, la mente di colpo svuotata, il mondo una vertigine
vorticosa. Fu Folchetto a spingermi avanti.
“Corri!” mi gridò.
Stefano! fu anche quel pensiero a strapparmi dall’incubo. Gridando
il suo nome, ripresi a correre mentre già i primi cavalieri fendevano
la massa di pueri, indifferenti alla carneficina causata dagli zoccoli
dei loro cavalli.
Mietitori di morte benedetti dal vescovo.
Che cosa potevo fare contro di loro? Gridavo e piangevo e correvo e niente
di quello che succedeva intorno però mi sfuggiva, proprio quando
avrei voluto diventare cieco e sordo: nessun cuore umano poteva sopportare
a lungo tanta malvagità.
Che fare quando vidi una giovane rotolare a terra con il proprio bimbo
di pochi mesi stretto tra le braccia? Mi rivoltai come una furia contro
il diavolo che incitava il cavallo su di lei, ma ottenni solo di essere
abbattuto da un colpo di spada che per mia fortuna mi colpì di
piatto.
E quando scorsi cinque pueri dei più piccoli stringersi gli uni
contro gli altri, inginocchiati tra gli schizzi di terra sollevati dai
cavalli scatenati, che fare contro la lancia che li trafisse?
Mi ritrovai nel centro dell’inferno ed era l’inferno vero,
non quello predicato nelle piazze contro chi disobbediva ai precetti o
attaccava la chiesa nei suoi beni terreni. L’inferno vero della
disperazione e del dolore senza fine, dell’impotenza che annichiliva
la mente e del terrore che spezzava le gambe e stringeva il cuore in un
pugno di ferro.
I pueri dilagarono oltre l’avvallamento e si sparsero in ogni direzione,
proprio come aveva programmato il mandante dell’eccidio, l’anticristo
che rimase a osservare senza battere ciglio.
Poteva essere orgoglioso delle proprie azioni, lui che aveva già
partecipato a una guerra santa, perché un’altra se l’era
procacciata da sé, contro bambini e bambine di nessuna colpa, del
tutto inermi, figli prediletti di Dio, amati da Gesù, santi innocenti.
La sera avrebbe reso grazie a Dio per avere concesso a lui l’onore
di avere disperso il cammino eretico degli stolti pueri.
Perché il vescovo non chiamò anche me a testimoniare nella
sua cattedrale? Lui a rendere grazie a Dio, io a gridare: perché?
perché, Signore Nostro Giusto e Misericordioso?
I pueri si rannicchiarono nelle buche, gattonarono su per la collina come
leprotti in fuga disperata, si fermarono annichiliti e levarono alte le
braccia in segno di resa… si inginocchiarono e giunsero le mani…
ma niente servì a niente e la strage degli innocenti proseguì
irrorando di sangue i fiori selvatici.
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